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Otto telegrammi dalla città assediata.

By MARCO GENOVESI.

Resistenza

La piazza era buia, quella notte. Quasi tutti i lampioni erano spenti, fatta eccezione per due o tre. Il vento spazzava via tutto quanto. Gelido, assassino, veniva dal nord, dove ghiacciai affilati ringhiavano dall’inizio dei tempi in una notte eterna, mentre i palazzi di marmo e i colonnati della piazza stavano immobili, indifferenti all’inverno che infuriava. Trump e io eravamo seduti sui gradini del Parlamento, stretti nelle nostre pellicce, coi cappelli calati sulla testa. Corrosi dal freddo. Trump mi passò la bottiglia e diedi un lungo sorso. Il fuoco mi chiuse lo stomaco. «Dobbiamo tornare a casa o non ce la faremo», gli dissi. «È troppo tardi, ormai. La strada è bloccata dalle barricate», rispose lui, afferrando di nuovo la bottiglia e cacciandosela in gola. «Come sopravviveremo stanotte?», gli chiesi, tranquillo, guardando quei due lampioni che illuminavano l’acciottolato della piazza e il marmo dei monumenti. Trump sembrò pensarci un po’su, quindi, semplicemente, rispose: «Non sopravviveremo stanotte.»

La neve, intanto, continuava a scendere.

Terrore

La donna girò lentamente la pagina della rivista. Era seduta sul divano del salotto di casa. Il pavimento era di parquet e le pareti bianche. Tutto era pulito, in ordine. Era primo pomeriggio, e dalla grande finestra alle sue spalle si poteva vedere la via, con ai lati tante villette tutte uguali, con il vialetto di ingresso, il giardino e i tetti rossi, e sopra la strada il cielo biancastro. Sembrava che le case si tenessero d’occhio reciprocamente, in guardia, anche se tutti gli oggetti di valore erano stati nascosti da qualche parte, lontano da sguardi indiscreti, e tutti gli allarmi erano stati attivati, e la pattuglia della polizia passava ogni quarto d’ora. Lei girò un’altra pagina, ma poi fu come se un presentimento avesse iniziato a farle pizzicare il cervello. Si girò, e vide che qualcuno stava camminando lungo la strada. Non era del quartiere, e, da come era vestito, probabilmente veniva dal Lato Nord, con le sue case popolari di cemento,  i mucchi di botteghe coi vetri antiproiettile, le carcasse di amianto abbandonate nei parchi e le fabbriche con le porte sbarrate e le finestre rotte. Lei lo guardò, attenta a non farsi vedere. Anche nelle altre villette c’era qualcuno affacciato alla finestra che, nonostante la simulata indifferenza, teneva d’occhio ogni movimento di quell’uomo. Fortunatamente lui, alla fine, girò a destra, sparendo dalla visuale, e la donna potè tornare alla sua rivista. Lesse un’altra pagina, dopo alzò lo sguardo. Doveva lucidare il legno della mensola, pensò, e togliere la polvere dai lampadari. Si sentì un rumore sordo provenire dal piano di sopra. La donna non ci fece tanto caso. Sapeva da dove veniva. Era senza dubbio il ragno. Ultimamente aveva preso a crescere davvero troppo, e non riusciva più a stare comodamente nella sua stanza. L’ultima volta che gli aveva portato da mangiare, si era resa conto che presto sarebbe cresciuto così tanto da sfondare il soffitto. Uno di questi giorni, pensò, dovrò portarlo in una stanza più grande.

Oscurità

Suono il campanello e tu apri la porta e mi inviti a entrare. Sei dimagrita dall’ultima volta, e gli zigomi sembrano più aspri, più affilati. Hai un viso ancora bellissimo, però, nonostante sia un po’più pallido, e i tuoi occhi siano un po’più stanchi, appesantiti da leggeri lividi di insonnia. La tua casa è piccola, con le pareti bianche e la moquette rossa. C’è solo un letto sfatto, una poltrona, una scomoda sedia di legno accanto alla grande finestra aperta che apre sulla strada e i grattacieli, un piccolo e ronzante frigorifero, un acquario con dei pesci colorati e un paravento che nasconde un angolo della stanza. Mi siedo sulla poltrona, tu mi porgi un bicchiere e, tenendo un altro bicchiere in mano, ti metti di fronte a me, sulla sedia di legno. Sorridi. Un sorriso luminoso. Parliamo un po’, ma è come se entrambi non sentissimo il bisogno di dire nulla di importante. Sappiamo già tutto, e l’unica cosa di cui abbiamo bisogno è il tuo sorriso mentre mi guardi negli occhi. Dopo una mezz’ora, dalla finestra inizia a venire fuori una musica strana, un suono terreno che esprime una melodia ultraterrena, e tu, senza smettere di sorridere, poggi il bicchiere e lentamente, con passi eleganti, vai dietro al paravento, e inizi a danzare. Posso vedere solo la tua sagoma nera, la tua ombra dietro il paravento, che danza, e a un certo punto appaiono delle ombre di uomini che danzano insieme a te, dolcemente, come alghe radicate sul fondale dell’oceano che oscillano tra le dita di oscure, gelide, lente e potenti correnti marine. Sei lì, un’ombra che balla con altre ombre. Ombre che vengono direttamente da lapidi consumate e incrostate di muschio, piantate su colline bagnate di nebbia e pioggia. So che sei dietro a quel paravento, so che quelle ombre sono lì con te. Sebbene, se mi sporgessi a vedere cosa c’è dietro quel paravento, non vedrei nessuno, nemmeno te, so che tu e quelle ombre siete lì, e che danzate assieme. Me ne resto seduto a guardarvi. Sei un po’più pallida, un po’più magra, un po’più stanca dell’ultima volta, ma non sei mai stata così bella, così perfetta. Tra poco uscirai dal paravento, di nuovo in carne e ossa, e tornerai a guardarmi col tuo sorriso disarmante, ma io so, lo so con certezza, che ci sarà un giorno in cui non vorrai più uscire da dietro quel paravento, e che quando quelle ombre spariranno sparirai anche tu, incamminandoti per sempre assieme a loro.

Sospensione

L’acqua grigia e limacciosa scivolava lenta nel canale. Io e Shultz eravamo affacciati alla ringhiera. Il cielo era nuvoloso, e il fumo che usciva dalle ciminiere del porto si mischiava alle nuvole, spandendo una macchia nera nel cielo simile all’effetto cromatico di una tazzina di caffè che viene immersa in un bicchiere pieno di latte caldo. Faceva freddo, e la mia giacca non era abbastanza pesante. Non c’era quasi nessuno in giro, e la folla che prima aveva gremito la chiesa si era riversata fuori già da tempo, e era scemata minuto dopo minuto. Eravamo rimasti solamente io e Shultz, e non avevamo più tanto da dire. In circostanze diverse, avremmo parlato degli elastici per capelli cinesi, che secondo noi venivano da preservativi usati, oppure avremmo scelto un argomento qualsiasi e, a furia di iperboli, lo avremmo trasformato in qualche surreale ammasso di nonsense e paradossi grotteschi, giusto per creare un aborto di conversazione, mostruoso e informe, che ci facesse ridere. Quel pomeriggio, invece, restammo tutti e due a fissare l’acqua, senza quasi parlare se non per scambiarci dei convenevoli a mezza voce. Le nostre teste erano ancora rimaste nella chiesa, i nostri occhi vedevano ancora quella bara dove giaceva un corpo che prima di allora non era sembrato mai tanto piccolo e tanto finto, come una specie di burattino di legno colorato con vernice dozzinale. I nostri ricordi erano ancora fermi alla sera prima, quando le tazze di caffè si susseguivano una dopo l’altra, in quella stanza piena di gente silenziosa. Una volta mi aveva detto: la vita è una lotta, e bisogna combattere ogni giorno e, mentre sono lì, a fissare il canale, penso che è vero. E che lei ha combattuto fino alla fine.

Graffi sul vetro

I fantasmi arrivano ogni volta che cerco di scrivere. Sarebbe meglio dire che, in quelle occasioni, emergono, visto che in realtà sono sempre com me. Giornate di sole e treni in corsa possono nasconderli ma, come palazzi abbandonati nascosti dalla nebbia, non aspettano altro che una leggera folata di vento per stagliarsi contro l’orizzonte. Prendo in mano la penna, e immediatamente sento il tintinnio di un bicchiere. Viene dal divano vicino al camino. Mi giro, e anche se non vedo altro che il luccicare di un coltello nel buio, so chi ho di fronte. Cerco di non pensarci e di continuare a fissare il foglio e tenere stretta la mia penna, ma quando una voce di donna mi chiama per nome ogni mio tentativo si sbriciola nelle sabbie mobili del fallimento. Mi giro e lei è rannicchiata sulla mensola della finestra, metà illuminata dalla luce dei lampioni e della luna, metà sciolta nel buio della stanza. Sorride e mi dice: «Tutte le donne di cui scrivi nei tuoi racconti stringono sempre uno spillo appuntito contro il petto. In ogni tua storia non fai altro che cercare di raggiungermi, senza mai riuscirci. Molti si arrabbierebbero per questo cieco inseguimento. Io ne sono lusingata.»

Morte

La ragazza prese a essere scossa da convulsioni fortissime. Sembrava una marionetta strattonata da un pazzo attraverso fili sottili e invisibili. Attorno a lei c’era tanta gente, ma nessuno osava avvicinarsi. Il sole era alto, e illuminava la piazza polverosa, e la terra della piazza diventava sempre più scura, le case attorno sempre più bianche, le crepe nell’intonaco delle case sempre più profonde, e la ragazza continuava a gridare, un grido così forte da far accapponare la pelle, e a rigirarsi nel terreno, con il suo vestito tanto bianco da essere abbagliante che cominciava a macchiarsi. Poi, mentre continuava, accasciata, a rigirarsi nella terra della piazza, prese a ridere. Una risata inumana, come un’ombra nera, nella città di luce.

Fine del mondo

Le stradine di ghiaia del parco, a un certo punto, terminavano, e lasciavano il posto a una grande radura, con l’erba grigia per via del mischiarsi del nero della notte col bianco dei lampioni. La radura si interrompeva solo dove i lampioni non riuscivano a fare più luce. In quel punto l’erba semplicemente spariva, inghiottita da un muro buio. Nell’erba, dei bambini giocavano e correvano, saltellando, gridando e scoppiando in risate argentine. Io e Klaus eravamo vicini a loro, e li guardavamo giocare, ben attenti che non si spingessero troppo lontano, e che non sparissero nell’oscurità che stava oltre la bolla di luce. Guardavamo quei bambini giocare, con le loro voci tanto innocenti da distruggere le montagne, tanto inermi da spazzare via interi eserciti, tanto pure da trafiggere a morte, tanto belle da far impazzire di terrore. Chiesi a Klaus: «Dove sono tutti gli altri uomini?»; «Lontano.», rispose Klaus.

Ultimo telegramma

Tutto si frantuma tutto esplode in mille pezzi che si dissolvono nel nulla rimane solo una casa di cemento in mezzo a ammassi di macerie una piccola casa di cemento dentro c’è una ragazza dai capelli scuri la stanza è vuota ci sono solo i calcinacci che cadono e il suono delle esplosioni che si avvicina e la ragazza ha un computer e la ragazza ha scritto tante pagine in maniera sempre più febbrile ma ora che le esplosioni sono sempre più vicine ora che mancano pochi secondi al momento in cui esploderà anche quella casa anche l’ultima casa rimasta nella città e il nulla regnerà sovrano ora che si è così vicini alla fine l’unica cosa che riesce a scrivere mentre i suoi occhi sgranati e lacrimanti sono incollati allo schermo e le sue dita picchiano sui tasti a velocità forsennata per scrivere il più possibile anche una lettera in più prima del crollo l’unica cosa che riesce a scrivere è non dimenticate non dimenticate non dimenticate non dimenticate non dimenticate non diment


Marco Genovesi was raised in Vasto, in the region of Abruzzo. He studied Diplomacy and International Relations at the University of Bologna. Telegrammi dalla città assediata (Telegrams from the City under Siege) is a sequence of eighteen poems. Besides his poetry, Genovesi has also written a novel, Un artista del trapezio (A Trapeze Artist), as well as a series of short stories. For the last three years he has spent much of his time in Aarhus, Denmark.

English text | Translator’s note | Index



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